Fermate quel treno!

Barbara Antonelli

Gerusalemme, Israele. Due o tre treni ogni ora e soltanto 28 minuti per raggiungere Gerusalemme da Tel Aviv e viceversa. E’ il più grande progetto infrastrutturale che il governo israeliano abbia mai intrapreso negli ultimi dieci anni: la costruzione di un treno ad alta velocità, anche conosciuto come progetto A1, che collegherà i due centri abitati. Un progetto pensato nel 1995, ma più volte interrotto o modificato (con la conseguenza che diverse aziende inizialmente coinvolte si sono ritirate) a causa delle proteste delle associazioni ambientaliste israeliane, che hanno sempre evidenziato i possibili danni ad alcune aree verdi di Israele, cosi come i residenti di Mevasseret Zion (un quartiere chic alle porte di Gerusalemme) che hanno sempre detto no all’alta velocità nella loro area, per l’inquinamento acustico, la distruzione del paesaggio naturale e il rischio che la proprietà nella zona subisse una svalutazione economica.

 

La rapida alternativa trovata dal governo israeliano è stata quella di modificare il tracciato iniziale, allungandolo (55 chilometri con lunghi tratti in viadotti e gallerie). A scapito, ancora una volta, delle comunità palestinesi. Infatti il nuovo percorso della A1 si snoda molto vicino alla Linea Verde (la linea dell’armistizio del 1949), nei pressi dell’enclave di Latrun; ma entra ben oltre, nei territori palestinesi, occupati da Israele nel 1967, dove vivono comunità palestinesi, molte delle quali costituite da profughi del 1948 e del 1967. Violando così legalità internazionale relativa ai Diritti Umani, tra cui la IV Convenzione di Ginevra, che vieta lo sfruttamento delle terre occupate da parte della potenza occupante.

 

Il progetto, già iniziato e che dovrebbe essere completato nel 2017, mette a repentaglio la sussistenza delle comunità palestinesi di Beit Surik e Beit Iksa, due villaggi che si trovano a ovest di Gerusalemme: entrambi sono stati isolati dalla vita commerciale della Città Santa proprio in seguito alla costruzione del Muro voluto dalle autorità israeliane, quindi sopravvivono oggi grazie all’agricoltura, soprattutto la coltivazione di ulivi. Entrambi le comunità sono state particolarmente colpite dalla costruzione del Muro, perdendo molta delle terra che è stata espropriata e confiscata.

 

I 4000 abitanti di Beit Surik si sono conquistati le pagine dei giornali perché nel maggio del 2004 sono riusciti a vincere un appello contro il Governo Israeliano alla Corte Suprema, obbligando lo Stato alla rimozione di parte del tracciato del Muro: nonostante questo, hanno perso almeno il 31% della loro terra agricola. Ora rischiano di perdere anche la parte di terra loro rimasta; infatti nonostante il tracciato della A1 sia già iniziato, i residenti hanno ricevuto pochissime informazioni da parte delle autorità israeliane, spesso trovando gli ordini di confisca della terra, attaccati nei pressi del Muro, già a partire dal Marzo 2010.

 

Beit Iksa è un villaggio che ha accolto molti rifugiati palestinesi, vittime della pulizia etnica israeliana nell’area di Ramle-Lydda nel 1948. Poi, con la guerra del ’67 larga parte della popolazione di Beit Iksa è stata indotta nuovamente alla fuga. Oggi, l’80% dei 2.000 abitanti rimasti sono registrati come rifugiati del ’48 dall’UNRWA (Agenzia ONU per i profughi palestinesi). Israele ha già confiscato il 40% della terra agricola del villaggio per la costruzione della colonia ebraica (illegale secondo il diritto internazionale) di Ramot, mentre il 60% rimasto è situato dietro il Muro. Anche qui i residenti temono che una volta che il treno verrà costruito, l’intera area sarà a loro inaccessibile per ragioni di “sicurezza”. A novembre le autorità israeliane hanno consegnato al Consiglio del villaggio un “ordine di acquisizione delle terre” secondo il quale 50 dunam(1) di terra saranno confiscati (20 in modo permanente per far posto ad una strada di accesso al tunnel, e 30 in modo “temporaneo”). Cinquecento alberi di ulivo sono a rischio di sradicamento, e questo comporta la rovina delle famiglie già economicamente deboli, che soffrono gli effetti della disoccupazione e basano la propria sussistenza sull’olio di oliva che producono.

 

In questo senso la modifica del tracciato della A1 riflette il fatto che le autorità israeliane abbiano preferito evitare compromessi e negoziazioni con i residenti israeliani, imponendo una realtà di fatto che va a scapito delle comunità palestinesi. In questo modo il progetto rafforza il regime di occupazione portato avanti da Israele, un sistema di apartheid che discrimina la popolazione palestinese, che non godrà dei benefici della A1, dal momento che si tratta di una linea utilizzata esclusivamente dai pendolari israeliani.

 

Il progetto inoltre prevede il coinvolgimento di due compagnie governative, la Deutsche Bahn, tedesca e la Moscow Metrostroy, russa, ma anche di molte compagnie private. Tra cui la svizzera HBI Haeter e l’italiana Pizzarotti S.p.A. Si tratta di un’impresa con sede a Parma che opera nei settori energetico, edilizia e restauro e realizza infrastrutture stradali, aeroporti civili e militari. Nel progetto della A1, in particolar modo, dovrà gestire la realizzazione della sezione C del progetto, con la conseguente costruzione di un tunnel.

 

A lanciare l’allarme sulle conseguenze e i danni per la popolazione palestinese è stato un rapporto diffuso a ottobre da “Whoprofit.org”, un progetto di ricerca della ONG israeliana femminista, Coalizione di Donne per la Pace. Che ha raccolto dati e informazioni sul coinvolgimento delle diverse aziende internazionali, in aggiunta a quelle israeliane. E ha dato avvio ad una mobilitazione della società civile israeliana, a cui stanno già rispondendo anche diversi gruppi europei che appoggiano e sostengono la campagna BDS ( boicottaggio, disinvestimento e sanzioni).

 

In Italia è nata la Coalizione Stop That Train, che mette insieme organizzazioni, associazioni, reti, movimenti, ONG e singoli cittadini che si stanno mobilitando con una campagna contro la costruzione della ferrovia sui territori palestinesi occupati. La Campagna chiede all’azienda Pizzarotti S.P.A. di ritirarsi immediatamente dal progetto, in quanto viola la legalità internazionale. Ma chiede anche alle istituzioni italiane, ai governi locali di non stipulare nuovi contratti con l’azienda se non si ritirerà dal progetto A1. Il 16 marzo, c’è stata una vera e propria mobilitazione a Parma; la Pizzarotti si giustifica asserendo che l’intervento assegnato all’azienda non riguarderà i territori occupati e non avrà alcun impatto ambientale: anzi in un articolo apparso dopo la mobilitazione si è difesa affermando di non essere responsabile “per la decisione riguardante la scelta del tracciato” che appartiene al committente, cioè la Israel Railways Ltd. Ma questo non la solleva dalla propria responsabilità: cioè in quanto partner di una joint venture, è responsabile e quindi complice di fatto di un progetto che, entrando nei territori occupati palestinesi, viola di fatto la legalità internazionale.

 

(1) il dunam è un’unità di misura che veniva usata nell’Impero Ottomano e oggi ancora in uso in alcuni paesi; equivale a circa 1000 m2

Este material periodístico es de libre acceso y reproducción. No está financiado por Nestlé ni por Monsanto. Desinformémonos no depende de ellas ni de otras como ellas, pero si de ti. Apoya el periodismo independiente. Es tuyo.

Otras noticias de Geografía   Israel   Reportajes  

Dejar una Respuesta